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La UE deve dotarsi di un esercito?
In questi giorni post brexit, il tema “Unione Europea” è stato portato alla ribalta su tutte le testate giornalistiche e il destino di questa istituzione è oggi messo quanto mai in discussione. Oggi volevo fare il punto su una questione molto controversa relativa alla necessità, per l’Unione, di dotarsi di un esercito; andando a leggere il “Manifesto di Ventotene”, lo storico scritto elaborato da Altiero Spinelli e considerato oggi il documento fondativo dell’Unione, salta agli occhi il peso che il politico aveva dato alla costituzione di un “esercito europeo”:
per costituire un largo Stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli Stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli
A. Spinelli, Manifesto europeista redatto durante il confino di Ventotene
Salta agli occhi come uno dei principali principi dell’unione voluta da Spinelli sia proprio la costituzione di un esercito (permanente) formato da soldati provenienti da tutti gli Stati federali. Ci possiamo chiedere: a che pro? Personalmente sono sempre stato dell’idea che, progressivamente, gli eserciti dovrebbero scomparire o, al limite, essere utilizzati solo in missioni di pace e, come ultima ratio, in funzione difensiva. Purtroppo è lo stesso Spinelli a delineare le funzioni dell’esercito europeo:
per quanto non si possa dire pubblicamente, il fatto è che l’Europa per nascere ha bisogno di una forte tensione russo-americana, e non della distensione, così come per consolidarsi essa avrà bisogno di una guerra contro l’Unione Sovietica, da saper fare al momento buono
in A. Spinelli, Diario Europeo (1948-1969), Il Mulino, 1989, p. 175
Link: L’Antidiplomatico
Un esercito, quindi, dai chiari propositi bellici! Ma può la guerra costituire un fondamento di un unione che dovrebbe avere come unico motivo d’essere la volontà di UNIRE i popoli sulla base di una forte e comune impronta morale e culturale?
Ci può essere d’aiuto, ancora una volta, il buon vecchio Kant (lo ammetto, ultimamente una delle mie letture preferite) con il suo terzo articolo preliminare per la Pace perpetua che recita:
«Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo interamente scomparire».
«Essi, infatti, dovendo sempre mostrarsi pronti a combattere, rappresentano per gli altri una continua minaccia di guerra; li invitano a superarsi reciprocamente nella quantità di armamenti, al quale non c’è limite.
Dato poi che il costo di una simile pace viene ad essere più opprimente di quello di una breve guerra, tali eserciti permanenti sono essi stessi causa di guerre aggressive intraprese per liberarsi di un tal peso.
Inoltre, il fatto di assoldare uomini per uccidere o essere uccisi, pare proprio che sia usarli come semplici macchine o strumenti in mano altrui (lo Stato), e ciò non si concilia per nulla con il diritto dell’umanità insito nella nostra propria persona (1).
Ben diverso è il caso degli esercizi militari periodici e volontari dei cittadini, per garantire se stessi e la patria contro aggressioni esterne»
Immanuel Kant, Per la pace perpetua
La domanda, quindi, è la seguente: la UE, posto che continui sempre ad esistere, dovrà in futuro dotarsi di un esercito permanente?
Riflessione sulla felicità…
Il mondo contemporaneo mi appare troppo spesso slegato dalla risoluzione di quelli che dovrebbero essere, a mio avviso, i veri problemi dell’esistenza umana. Manca la riflessione sulla domanda forse centrale nella vita di ognuno: che cosa è la felicità? Che cosa mi rende felice? Il senso della vita umana, forse, va ricondotto proprio a questa domanda e al tentativo di darvi una risposta universalmente valida.
Il testo della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, frutto di una ideologia tutta europea imperniata sui cardini dell’Illuminismo, rivendicava il “diritto alla ricerca della Felicità” come diritto inalienabile dell’uomo, assieme al “diritto alla Vita” e al “diritto alla Libertà”. E già in questa formulazione si può vedere come la felicità debba essere ricercata, scovata…essa può apparire nascosta, presentarsi sotto mentite spoglie ma va, per l’appunto, ricercata.
Se l’esistenza del singolo non passa attraverso questa fase di ricerca, tale esistenza è destinata ad una perpetua insoddisfazione e, soprattutto, da una forte mancanza di senso. La ricerca della felicità presuppone anche la ricerca di una meta, il tentativo di raggiungere un obiettivo. E se tali mete e obiettivi dovessero manifestarsi, infine, come lontani dalle nostre aspirazioni il cammino dovrà ricominciare e durare, forse, per tutta la vita.
Detto questo, che cosa ci rende felici? Non ho ancora una risposta definitiva e spesso mi pongo il problema…ma quando rifletto mi tornano sempre in mente le parole di Epicuro e le sue meravigliose riflessioni contenute nella “Lettera a Meneceo“.
Chiudo il post proprio lasciando aperta la riflessione personale sulla scorta di alcuni passi di Epicuro:
“Occorre dunque riflettere su cosa produce la felicità, se davvero, quando è presente, abbiamo tutto, mentre quando è assente facciamo di tutto per ottenerla” (122)
“Il saggio è colui che né ricerca il vivere né teme il non vivere, poiché né gli è avverso il vivere né reputa un male il non vivere” (126)
“Si deve pensare che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e di quelli naturali alcuni necessari, altri soltanto naturali; e di quelli necessari alcuni lo sono per la felicità, altri per il benessere del fisico, altri per la vita stessa. Infatti una sicura conoscenza di questi sa ricondurre ogni scelta e rifiuto alla salute del corpo e alla tranquillità dell’anima” (127-128)
“Quando dunque diciamo che il piacere è il fine ultimo, non ci riferiamo ai piaceri dei dissoluti o a quelli che si trovano nelle crapule, come ritengono alcuni che invero ignorano il nostro pensiero o non lo condividono o lo male interpretano, ma il non soffrire fisicamente e il non essere turbati spiritualmente” (131)
La tripartizione dell’anima nel pensiero di Platone
Uno dei temi più difficili e affascinanti del pensiero di Platone è senza ombra di dubbio quello legato alla descrizione dell’anima e delle sue caratteristiche. Il filosofo di Atene parla a più riprese di questo tema in molti dei suoi dialoghi, soprattutto nel “Fedro”, nella “Repubblica” e nel “Timeo”; l’anima è il principio vitale ed eterno che esiste in ogni creatura e come tale è soggetta, riprendendo un tema molto caro già ai pitagorici, alla metempsicosi, la “trasmigrazione” da un corpo ad un altro corpo. Accanto a questa visione, Platone ne propone un’altra per specificare, a mio avviso, la complessità dell’anima umana, che viene addirittura “scomposta” in tre parti: un’anima razionale, una irascibile ed una concupiscibile. Ovviamente Platone non voleva sostenere la presenza, all’interno degli uomini, di tre diverse anime, ma sottolineare quelle che oggi definiremmo forze psichiche tra di loro in rapporto.
Analizzando alcuni dei principali miti che Platone aveva scritto a riguardo ho provato a rappresentare, in uno schema, alcuni possibili rimandi che ogni tripartizione dell’anima può portare:
Cercando di affrontare, in modo semplice, lo schema proposto, si può subito notare come le tre diverse “funzioni” dell’anima vengano collocate in precisi organi del nostro corpo: l’anima razionale avrebbe sede nel cervello, quella irascibile nel cuore e quella concupiscibile, infine, nelle parti più basse del corpo. E’ bene da subito precisare che in ogni uomo albergano queste tre diverse anime le quali dovrebbero presiedere a funzioni specifichee ed uniche:
- anima razionale: intelletto, pensiero razionale
- anima irascibile: coraggio, impulsività
- anima concupiscibile: appetiti “culinari” (stomaco,intestino) e sessuali (organi di riproduzione)
Platone precisa inoltre che la parte più “forte” tra le tre sarebbe quella concupiscibile, paragonata ad un “mostro dalle tante teste”, chiaro riferimento alla forza che i desideri materiali, spesso inconsci e molteplici, possono esercitare sulle restanti parti dell’anima. La sezione mediana dell’anima, quella irascibile, viene legata al leone, animale che più di tutti riecheggia potenza; l’anima irascibile è molto importante ma deve essere posta, secondo l’Ateniese, al servizio di quella razionale; se infatti venisse controllata dalla parte concupiscibile, la parte razionale non sarebbe più in grado di “governare” il corpo, portando ad un’esistenza caratterizzata da forti squilibri. Infine, l’anima razionale viene proprio legata alla figura specifica dell’uomo; l’essere umano, infatti, si distinguerebbe da tutte le altre creature per la sua razionalità, tematica che sarà ripresa poi in modo molto bello da Aristotele e che caratterizzerà un po’ tutto il pensiero metafisico occidentale.
I rapporti tra le diverse parti dell’anima sono esemplificati al meglio dal mito dell’auriga e del carro alato, presente nel Fedro; l’auriga (anima razionale), che vuole guidare il carro in alto, verso il mondo delle Idee (verso la conoscenza), deve saper guidare bene i due
cavalli, quello bianco (anima irascibile) e quello nero (anima concupiscibile) che, senza una guida, andrebbero verso il basso. Va da sé che la forza dei cavalli sia più forte di quella dell’auriga, ma questi, se ben educato e buon conoscitore dei due cavalli, può portare ad un corretto andamento del carro (del corpo umano).
E’ sorprendente la grandissima modernità di tale impostazione di pensiero. Ai tempi di Platone non esisteva la ricerca psicologica intesa in senso moderno, come disciplina separata dalla filosofia. Platone era già giunto, senza nessuna pretesa di scientificità, a molte delle idee di Freud riguardo l’esistenza dell’inconscio e così via (Es, Io, Super-io…)Ma, del resto, la psicologia (“studio dell’anima”, nella sua non casuale etimologia) nasce in seno alla filosofia e solo dal XIX secolo se ne è distaccata….
Per finire questo veloce excursus sulle idee di Platone sull’anima, ci si deve focalizzare sulla parte più pratica di questa impostazione, quella che individua la tripartizione dell’anima anche in funzione di una tripartizione sociale, in quella che dovrebbe costituire, nel progetto descritto nella “Repubblica”, la “kallipolis”, la città giusta. In tale città-stato ideale, ogni uomo dovrebbe poter svolgere il lavoro più idoneo alla propria indole, un’indole portabile alla luce solo da un forte sistema educativo gestito dallo Stato. Secondo l’idea di Platone ognuno di noi avrebbe una maggiore presenza di una delle tre caratteristiche dell’anima e, in base a tale “prevalenza”, appartenere ad una determinata classe sociale:
- + anima razionale: politici, ossia filosofi: possiedono la saggezza, se ben educati
- + anima irascibile: guerrieri: possiedono il coraggio, se ben educati
- + anima concupiscibile: artigiani, produttori: possiedono la temperanza, se ben educati
Non è questa la sede per sviscerare tale impostazione; qui basta ricordare come tale prevalenza di una delle tre “anime” fosse stata spiegata da Platone attraverso il “mito degli uomini plasmati dalla terra” dove il Demiurgo (un dio artigiano), plasmando gli uomini con la terra a sua disposizione, avrebbe messo in alcuni individui più oro, in alcuni più argento e, in altri, più rame. Un mito, secondo me, molto molto suggestivo.
Per concludere, cosa possiamo imparare da tutto questo discorso? Innanzitutto possiamo apprezzare l’enorme complessità del pensiero di Platone e la sua straordinaria forza e modernità; “parlare” con una mente così attraverso le barriere del tempo e dello spazio è uno dei privilegi di chi vuole coltivare la passione per la filosofia. Inoltre dobbiamo ricordare che il modo migliore per poter guidare la nostra esistenza in questo mondo è quella di conoscere bene noi stessi, le nostre pulsioni, i nostri desideri, sempre cercando di trovare un equilibrio tra le forze che spesso ci dominano, anche inconsciamente. Ma non dobbiamo mai scordare che, in primis, siamo esseri umani e che dobbiamo dare maggiore spazio, se vorremo essere “giusti”, all’auriga che è in tutti noi.
Pink Floyd – Marooned
Ho sempre amato questo brano tratto dall’ultimo disco di inediti dei Pink Floyd, The Division Bell, dell’ormai lontano 1994. Ritorno indietro nel tempo e ricordo di quando, ragazzino, frequentavo la prima e la seconda superiore. Sono passati davvero un bel po’ di anni ma il mio amore per la loro musica non è mai scemato, anzi. Pur restando un accanito watersiano ho imparato col tempo ad apprezzare le opere dove l’arte del genio creativo delle origini è assente. E in particolare, in questo brano, la chitarra di Gilmour e il piano di Wright si fondono in un tutto armonico di incomparabile bellezza. Recentemente il brano è stato arricchito da questo ottimo video che associa la musica alle rovine della città di Chernobyl, inducendo l’ascoltatore ad un’intima riflessione con la Storia e il ruolo dell’uomo sul pianeta.
Tra pochi giorni uscirà il nuovo disco dei Floyd, The endless river, dove saranno proposti brani composti durante le stesse sessions musicali che hanno portato a The Division Bell; sarà molto emozionante ritornare a sentire le note di Wright e compagni.
Shoah – Memoria di un vicino passato
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Intorno agli inizi dell’anno mille, il monaco Rodolfo il Glabro scriveva che l’Europa si stava ricoprendo di “un bianco manto di chiese”, riferendosi, con ogni probabilità, allo sviluppo dell’arte romanica nel Vecchio continente.
Se Rodolfo fosse vissuto negli anni ’40 del XX secolo, avrebbe notato qualcos’altro, soprattutto nel cielo. Non in tutto il cielo, no, ma su quello sovrastante alcuni luoghi avrebbe notato delle dense nuvole nere, con un fumo che poteva coprire il sole. Avrebbe probabilmente detto che le tenebre del male stavano oscurando il creato e la metafora sarebbe stata quantomeno azzeccata!
Auschwitz, Birkenau, Mauthausen, Dachau, Bergen-Belsen…sul cielo di alcune di queste oscure località il fumo generato dalla combustione di migliaia di cadaveri poteva anche nascondere il sole.
Migliaia, milioni di persone uccise per un odio insulso nei loro riguardi, eliminate dalla faccia dalla terra perché appartenenti ad un gruppo etnico considerato inferiore, malato, paragonabile ad un virus che avrebbe minato la salute della cosiddetta “razza ariana”.
Oggi, 27 gennaio 2014 si celebra, come ogni anno, l’apertura dei cancelli di Auschwitz, la liberazione, da parte dei sovietici, di uno dei campi più rappresentativi dello sterminio degli ebrei. Oggi, come ogni anno, abbiamo il compito di ricordare il paradosso storico che abbiamo alle nostre spalle, un momento di oscuramento della ragione che ha colpito migliaia di persone che si sono fatte contagiare da un odio spaventoso non solo verso gli ebrei, ma anche contro altre “minoranze” come omosessuali, dissidenti politici, diversamente abili, dissidenti politici, zingari…..
Nel ricordare l’Olocausto, ricordiamo anche che il dovere della Storia è quello di tramandare il passato alle nuove generazioni per permettere ai posteri di non ricadere negli stessi errori delle generazioni a loro precedenti. Tutto questo può sembrare quasi utopistico, se osserviamo i vari orrori che sono raccontati nei libri di storia, ma non per questo non dobbiamo smettere di ricordare. La memoria degli eventi passati è l’unica arma contro l’assurdo negazionismo che sta imperversando in questi tempi, specie tra le generazioni più giovani che sono spinte a “non credere” perché resi disincantati e scettici da un mondo politico sempre più denso di sporcizia, ipocrisia, falsità.
Bisogna far conoscere la Storia, farla amare. Solo attraverso il ricordo e i buoni esempi possiamo sradicare l’odio che è, forse, nascosto in ogni uomo.
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