news
Genova, tesori nascosti #6: la chiesa dei Santi Cosma e Damiano
La chiesa dei Santi Cosma e Damiano si trova nel cuore più antico del centro storico di Genova e costituisce senza ombra di dubbio uno degli esempi più significativi di romanico genovese. Ricordo ancora quando ero uno studente e accompagnavo i turisti in visita all’acquario proprio in questa zona della città vecchia, attraverso il cosiddetto “itinerario verde”. Dagli anni ’90 ad oggi la zona è molto cambiata (in meglio, grazie a Dio) e la chiesa ha ottenuto un profondo restyling che ha potuto riportare gran parte del manufatto alle sue origini più autentiche.
Leggendo il Tolozzi si apprende che la prima notizia della chiesa risale ad un documento del 21 aprile 1049 sul sito di un precedente edificio (forse un oratorio) dedicato ai Santi Damiano e Celso, due medici martirizzati nel III secolo in Cilicia.
La particolare dedica dell’edificio di culto ha portato nel tempo i membri dell’arte dei medici a porre il proprio sepolcro nella navata principale.
Nella facciata, oltre la famosa tomba del Barisone, si possono ancora ammirare degli esempi di bassorilievi raffiguranti alcuni mostri tratti dai bestiari medievali e che costituivano la cifra stilistica dell’arte romanica.
L’edificio spicca per la sua sobria semplicità, dominato dalla forte presenza della pietra nera di promontorio, vero marchio di fabbrica dell’architettura medievale genovese. Le pareti delle navate si presentano oggi per lo più in nuda pietra o mattoni a vista ma probabilmente erano un tempo affrescate (mi piange sempre il cuore a pensare a tutti gli affreschi che sono scomparsi nel corso dei secoli…non potremo vederli mai più…).
Di notevole interesse sono sicuramente le reliquie di San Damiano recate a Genova verso la fine del XIII secolo e provenienti da Costantinopoli (città vero e proprio scrigno di importanti reliquie).
Per finire questa breve analisi della chiesa voglio ineserire l’immagine di un probabile sarcofago romano utilizzato proprio come materiale di riuso ai tempi dell’edificazione della chiesa, ricordando che tutta la città vecchia è davvero piena di elementi di questo genere…basta avere gli occhi per guardare. Alla prossima!
Hobbes e Kubrick: lo stato di natura
Il titolo di questo articolo collega due nomi che difficilmente si possono trovare abbinati insieme…quale legame ci può mai essere tra un filosofo inglese del XVII secolo ed uno dei più grandi registi cinematografici del secolo scorso? La chiave di risposta è da ricercarsi, a mio avviso, nell’analisi del concetto di “stato di natura”, uno dei temi fondamentali presenti nel “Leviatano”, opera principale di Hobbes.
Nel “Leviatano” Hobbes descrive, come è noto, le cause che hanno portato gli uomini a legarsi tra di loro per formare delle società. Per il filosofo inglese, a differenza della nota posizione di Aristotele, l’uomo non è un “animale sociale”, anzi, ma per sua stessa natura tende ad una forte “asocialità”. Nelle parole di Hobbes:
se due uomini desiderano una stessa cosa che d’altra parte non possono godere insieme essi diventano nemici; e per ottenere il loro scopo, che consiste principalmente nella propria conservazione, e molte volte la ricerca soltanto del proprio piacere, ognuno dei due tenta di sopprimere o di sottomettere l’altro. Per questo avviene che mentre un invasore non ha da temere altro che il solo potere di un altro uomo, se uno pianta, semina, costruisce, o possiede un’abitazione confortevole, è possibile che altri vengano organizzati con forze unite per spossessarlo e privarlo non soltanto del frutto del suo lavoro ma anche della vita, o della libertà
Tra i vari motivi che avrebbero portato gli uomini a scontrarsi fra di loro nello stato di natura, pertanto, Hobbes pone in primo piano la rivalità che scaturisce dalla volontà di due o più persone di appropriarsi della stessa risorsa. In un mondo dove gli uomini sono “lupi per gli altri uomini”, dove ogni conquista può essere messa in discussione da un altro uomo e la stessa vita è costantemente a rischio, avviene il necessario passaggio ad una società con delle regole, con delle leggi, uniche condizioni che, pur limitando la libertà dei singoli, possono garantire almeno il diritto alla vita. Non è questa la sede per descrivere le caratteristiche della forma di governo elaborata da Hobbes nel “Leviatano”, argomento che probabilmente riprenderò in un futuro post.
Ritornando al titolo del post, perché Kubrick? La risposta risiede nella prima parte della mia opera preferita del regista, “2001: Odissea nello spazio”. Le prime scene del film raccontano chiaramente, a mio avviso, la condizione degli uomini nello stato di natura. Certo, non siamo davanti a veri e propri uomini ma ai loro antenati, i primati (tra Hobbes e Kubrick c’è stato un certo Darwin…)ma le condizioni di vita assomigliano alla situazione descritta da Hobbes. C’è una scena, fra tutte, che simboleggia la rivalità tra gruppi di primati, quella per il possesso di una pozza d’acqua, fonte primaria di vita. A mio avviso Kubrick è riuscito in modo magistrale a raccontare la comparsa dell’uomo sulla Terra, la paura nei confronti degli altri simili, il terrore causato dal tramonto del Sole e dalla comparsa del buio (senza la certezza del ritorno della luce). Per chi ne avesse voglia, metto qui di seguito un link alla prima parte del film; nella parte selezionata fa la sua comparsa anche il famoso monolito nero, oggetto assolutamente misterioso che nasconde una profonda simbologia…anche in questo caso mi riserbo di affrontare i suoi significati nel prossimo futuro. A presto!
Hegel e la dialettica “servo-signore”. Spunti di lettura
Una delle pagine più famose della filosofia hegeliana è sicuramente quella che descrive il rapporto tra la figura del servo e quella del signore, spunto di partenza anche per molte riflessioni filosofiche successive.
Le figure descritte da Hegel fanno la loro comparsa all’interno della “Fenomenologia dello Spirito” il cui titolo, originariamente, doveva essere la “Scienza dell’esperienza della coscienza”. Tutta l’opera, infatti, costituisce una sorta di “romanzo” che ha per protagonista la coscienza individuale e il suo cammino verso il Sapere Assoluto, un cammino dettato da precise tappe tra di loro connesse in modo necessario e organizzate secondo il famoso rapporto triadico, composto da una tesi, dalla sua antitesi e dalla sintesi che entrambe comprende.
Tutta la filosofia di Hegel pone l’accento sul necessario riconoscimento dell’alterità rispetto al sé e sul conseguente superamento della diversità nella sintesi. Anche sul piano strettamente umano, Hegel ci ricorda che:
“L’autocoscienza è in sé e per sé solo quando e in quanto è in sé e per sé per un’altra autocoscienza, cioè solo in quanto è qualcosa di riconosciuto” (p. 275).
Gli esseri umani si riconoscono come autocoscienze solo nel momento in cui si pongono in relazione gli uni con gli altri; la specificità di ognuno è esplicitata solo nel rapporto con l’altro-da-sé, tuttavia questo reciproco “scambio” non avviene in modo immediato ma solo attraverso uno scontro tra le autocoscienze:
“Il rapporto tra le due autocoscienze, dunque, si determina come un dar prova di sé, a se stesso e all’altro, mediante la lotta per la vita e per la morte […] ed è soltanto rischiando la vita che si mette alla prova la libertà.” (p.281).
Come in una sorta di “stato di natura” di hobbesiana memoria, le due autocoscienze devono mettersi alla prova mettendo a repentaglio, pur di autoaffermarsi, la loro stessa esistenza. Solo l’autocoscienza capace di rischiare totalmente la vita potrà trovare un vero e proprio riconoscimento di sé e diventerà, nella terminologia hegeliana, un “signore”; l’autocoscienza incapace di rischiare, viceversa, non troverà un immediato riconoscimento di sé e diventerà subordinata al signore: nasce la figura del “servo”:
“Il signore si rapporta dunque mediatamente al servo attraverso l’essere autonomo […]; il servo si è rivelato non-autonomo proprio perché ha voluto avere la propria auotonomia nella cosalità. Il signore, invece, avendo dimostrato nella lotta di considerare l’essere autonomo soltanto come un negativo, è la potenza che domina su questo essere […], il signore si rapporta mediatamente alla cosa attraverso il servo […], il servo può solo trasformarla col proprio lavoro”. (pp. 283-285).
Si va quindi a costituire un rapporto di sudditanza del servo rispetto alla figura del signore/padrone. Tuttavia, grazie ai tipici aspetti di rovesciamento dialettico della filosofia hegeliana, anche il servo riuscirà a trovare riconoscimento di sé proprio grazie al lavoro. E’ proprio l’attività manuale di “trasformazione della natura”, peculiare del lavoro servile, che porterà il servo a sperimentare la coscienza di sé e a sviluppare la prima forma di vera libertà, una libertà più forte di quella del signore, la cui esistenza dipende proprio dal lavoro del suo “sottoposto”:
“Il rapporto negativo verso l’oggetto diviene adesso forma dell’oggetto stesso, e diviene qualcosa di permanente, proprio perché l’oggetto ha autonomia agli occhi di chi lo elabora […]; con il lavoro, la coscienza esce fuori di sé per passare nell’elemento della permanenza […]; in effetti, formando la cosa, la coscienza vede divenire suo oggetto la propria negatività, il proprio essere-per-sé, solo perché essa rimuove la forma essente opposta” (p. 289)
“Nel lavoro, dunque, in cui essa sembrava essere solo un senso estraneo, la coscienza ritrova sé mediante se stessa e diviene senso proprio” (p. 291).
(I passi sono stati tratti dall’edizione Bompiani 2004, traduzione di Vincenzo Cicero).
“Noi”, la distopia di Zamjatin che anticipa Orwell.
Grazie ai suggerimenti che il mio ormai fedele “Kindle” mi propone puntualmente nella sua home page, mi sono recentemente imbattuto in una “nuova” distopia davvero molto interessante, pubblicata in inglese nel 1924 dallo scrittore russo Evugenij Ivanovic Zamjatin.
Ambientata in un non meglio precisato futuro, la storia descrive una società governata dal “Benefattore”, dove le persone si comportano tutte allo stesso modo all’interno di giornate scandite da un ferreo e rigoroso orario da rispettare che regola le azioni di ciascuno. Uomini e donne, ormai senza nome ed identificati da sigle alfanumeriche, possono incontrarsi privatamente solo per due ore al giorno attraverso un sistema di prenotazioni con tagliandi rosa che permettono a ciascuno di accoppiarsi con la persona prenotata. La famiglia non esiste più, i figli appartengono allo stato, la libertà di pensiero e di comportamento è scomparsa. La città è inoltre cinta da un Muro oltre il quale dovrebbe esistere solo il nulla, generato dalla disastrosa “Guerra dei duecento anni”. Tuttavia, come si scopre ben presto, oltre al muro esistono dei sopravvissuti al conflitto che cercheranno, attraverso alcune persone a conoscenza del fatto, di rovesciare il governo del Benefattore e rivoluzionare la società.
Censurata nell’Unione Sovietica, dove venne pubblicata solo nel 1988, l’opera di Zamjatin è una chiara riflessione a toni scuri sui lati negativi interni alla Russia di inizio Novecento; i lati più deprecabili della società sovietica sono portati all’eccesso, gli uomini non godono ormai più del libero arbitrio, consegnandosi al Benefattore attraverso un’operazione in grado di eliminare dal cervello la zona deputata alla formazione della fantasia, vista come vera e principale nemica dell’ordine costituito; compito della “Grande Operazione” è infatti quello di “essere liberati dai punti di domanda che serpeggiano come vermiciattoli, rodono come tarli” in modo da massificare il più possibile tutti gli esseri umani.
Il compito del genere distopico, figlio novecentesco di quello utopico, è sicuramente quello di farci riflettere sui pericoli connessi al nostro modo di vivere. Opere come “Il mondo nuovo” di Huxley o “1984” di Orwell, senza dimenticare la recentissima “Caverna” di Saramago ci mettono in guardia, ci forniscono un monito. Purtroppo, a mio avviso, la maggior parte di questi ammonimenti non vengono presi assolutamente in considerazione dai politici che ci governano i quali, invece di far intraprendere alla società un corso diverso, sembrano spingere la stessa proprio verso i sogni distorti elaborati da questi grandi scrittori.
La UE deve dotarsi di un esercito?
In questi giorni post brexit, il tema “Unione Europea” è stato portato alla ribalta su tutte le testate giornalistiche e il destino di questa istituzione è oggi messo quanto mai in discussione. Oggi volevo fare il punto su una questione molto controversa relativa alla necessità, per l’Unione, di dotarsi di un esercito; andando a leggere il “Manifesto di Ventotene”, lo storico scritto elaborato da Altiero Spinelli e considerato oggi il documento fondativo dell’Unione, salta agli occhi il peso che il politico aveva dato alla costituzione di un “esercito europeo”:
per costituire un largo Stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli Stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli
A. Spinelli, Manifesto europeista redatto durante il confino di Ventotene
Salta agli occhi come uno dei principali principi dell’unione voluta da Spinelli sia proprio la costituzione di un esercito (permanente) formato da soldati provenienti da tutti gli Stati federali. Ci possiamo chiedere: a che pro? Personalmente sono sempre stato dell’idea che, progressivamente, gli eserciti dovrebbero scomparire o, al limite, essere utilizzati solo in missioni di pace e, come ultima ratio, in funzione difensiva. Purtroppo è lo stesso Spinelli a delineare le funzioni dell’esercito europeo:
per quanto non si possa dire pubblicamente, il fatto è che l’Europa per nascere ha bisogno di una forte tensione russo-americana, e non della distensione, così come per consolidarsi essa avrà bisogno di una guerra contro l’Unione Sovietica, da saper fare al momento buono
in A. Spinelli, Diario Europeo (1948-1969), Il Mulino, 1989, p. 175
Link: L’Antidiplomatico
Un esercito, quindi, dai chiari propositi bellici! Ma può la guerra costituire un fondamento di un unione che dovrebbe avere come unico motivo d’essere la volontà di UNIRE i popoli sulla base di una forte e comune impronta morale e culturale?
Ci può essere d’aiuto, ancora una volta, il buon vecchio Kant (lo ammetto, ultimamente una delle mie letture preferite) con il suo terzo articolo preliminare per la Pace perpetua che recita:
«Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo interamente scomparire».
«Essi, infatti, dovendo sempre mostrarsi pronti a combattere, rappresentano per gli altri una continua minaccia di guerra; li invitano a superarsi reciprocamente nella quantità di armamenti, al quale non c’è limite.
Dato poi che il costo di una simile pace viene ad essere più opprimente di quello di una breve guerra, tali eserciti permanenti sono essi stessi causa di guerre aggressive intraprese per liberarsi di un tal peso.
Inoltre, il fatto di assoldare uomini per uccidere o essere uccisi, pare proprio che sia usarli come semplici macchine o strumenti in mano altrui (lo Stato), e ciò non si concilia per nulla con il diritto dell’umanità insito nella nostra propria persona (1).
Ben diverso è il caso degli esercizi militari periodici e volontari dei cittadini, per garantire se stessi e la patria contro aggressioni esterne»
Immanuel Kant, Per la pace perpetua
La domanda, quindi, è la seguente: la UE, posto che continui sempre ad esistere, dovrà in futuro dotarsi di un esercito permanente?
Riflessione sulla felicità…
Il mondo contemporaneo mi appare troppo spesso slegato dalla risoluzione di quelli che dovrebbero essere, a mio avviso, i veri problemi dell’esistenza umana. Manca la riflessione sulla domanda forse centrale nella vita di ognuno: che cosa è la felicità? Che cosa mi rende felice? Il senso della vita umana, forse, va ricondotto proprio a questa domanda e al tentativo di darvi una risposta universalmente valida.
Il testo della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, frutto di una ideologia tutta europea imperniata sui cardini dell’Illuminismo, rivendicava il “diritto alla ricerca della Felicità” come diritto inalienabile dell’uomo, assieme al “diritto alla Vita” e al “diritto alla Libertà”. E già in questa formulazione si può vedere come la felicità debba essere ricercata, scovata…essa può apparire nascosta, presentarsi sotto mentite spoglie ma va, per l’appunto, ricercata.
Se l’esistenza del singolo non passa attraverso questa fase di ricerca, tale esistenza è destinata ad una perpetua insoddisfazione e, soprattutto, da una forte mancanza di senso. La ricerca della felicità presuppone anche la ricerca di una meta, il tentativo di raggiungere un obiettivo. E se tali mete e obiettivi dovessero manifestarsi, infine, come lontani dalle nostre aspirazioni il cammino dovrà ricominciare e durare, forse, per tutta la vita.
Detto questo, che cosa ci rende felici? Non ho ancora una risposta definitiva e spesso mi pongo il problema…ma quando rifletto mi tornano sempre in mente le parole di Epicuro e le sue meravigliose riflessioni contenute nella “Lettera a Meneceo“.
Chiudo il post proprio lasciando aperta la riflessione personale sulla scorta di alcuni passi di Epicuro:
“Occorre dunque riflettere su cosa produce la felicità, se davvero, quando è presente, abbiamo tutto, mentre quando è assente facciamo di tutto per ottenerla” (122)
“Il saggio è colui che né ricerca il vivere né teme il non vivere, poiché né gli è avverso il vivere né reputa un male il non vivere” (126)
“Si deve pensare che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e di quelli naturali alcuni necessari, altri soltanto naturali; e di quelli necessari alcuni lo sono per la felicità, altri per il benessere del fisico, altri per la vita stessa. Infatti una sicura conoscenza di questi sa ricondurre ogni scelta e rifiuto alla salute del corpo e alla tranquillità dell’anima” (127-128)
“Quando dunque diciamo che il piacere è il fine ultimo, non ci riferiamo ai piaceri dei dissoluti o a quelli che si trovano nelle crapule, come ritengono alcuni che invero ignorano il nostro pensiero o non lo condividono o lo male interpretano, ma il non soffrire fisicamente e il non essere turbati spiritualmente” (131)
La “Buona scuola” e le scuole paritarie
Ci stiamo sempre più avvicinando alle fasi finali del progetto “Buona scuola”, con le imminenti operazioni di trasferimento descritte nella tanto discussa legge 107/2015. Il progetto del governo, come è ormai risaputo, ha portato all’assunzione di numerosi insegnanti che da tempo “ristagnavano” nelle Graduatorie ad esaurimento (GAE) e che nel corso degli anni hanno lavorato con più o meno continuità anche grazie, come il sottoscritto, attraverso contratti di lavoro con Istituti paritari.
Ora, il complesso sistema di reclutamento degli insegnanti ha sempre previsto l’assegnazione di 12 punti annui al servizio prestato sia presso scuole statali, sia presso scuole paritarie. Non un punto in meno, non uno in più….Il punteggio così costituito è stato la base per le nomine in ruolo previste dalla legge 107 (che da questo punto di vista non pone differenze fra stato e privato). I nodi cominciano a venire al pettine solo con la mobilità che, per la prima volta nella storia della scuola italiana, che io sappia, diventa obbligatoria e coatta. E sì, perché adesso il calcolo del punteggio, valido ai fini dei trasferimenti, non tiene più in considerazione, nemmeno in parte, il punteggio prestato presso le scuole secondarie private. La cosa non ha assolutamente senso.
Mi hanno detto che il servizio non può essere considerato perché lo può essere solo quello che serve alla “ricostruzione di carriera”. Ma cosa vuol dire? Ho capito che lo Stato non vuole pagare gli “scatti di anzianità” dovuti in base agli anni prestati, in quanto chi ha lavorato nella paritaria è stato retribuito dalle private. Ma cosa c’entra tutto questo con la valutazione del servizio? Come si può essere considerati con 0 punti di servizio, dopo 10 e passa anni prestati in una scuola che nel corso degli anni ha fatto mettere i punti nelle GAE e che ha “sfornato” diplomati in tutto e per tutto uguali ai diplomati nello Stato? E, ancora, come si possono non attribuire punti ai percorsi SSIS? Perché i sindacati non intervengono in quello che io vedo un vero e proprio “vuoto normativo”?
Mi si dirà anche che il servizio nelle paritarie non è mai stato contato per i trasferimenti…ma io rispondo a tale domanda con la semplice constatazione che, ad oggi, ogni assunto da GAE ha SEMPRE avuto la sicurezza di lavorare nella provincia di assunzione. Ora, invece, siamo stati assunti con un grosso punteggio che ci ha permesso di restare nella città espressa nella prima preferenza del piano di assunzioni straordinario e ci apprestiamo a doverci muovere in tutta Italia, perché quel punteggio non lo abbiamo più.
Sono indignato da questo sistema perverso.
- 1
- 2
- …
- 6
- Successivo →