Filosofia

Il virus. Considerazioni libere sull’epidemia da Covid-19.

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“Il virus”

Al largo della terraferma, nell’Isola invisibile, arrivò il virus. Non si annunciò in pompa magna come un sovrano del Seicento ma si fece largo tra e nelle persone attraverso strette di mano, baci, abbracci, le manifestazioni di affetto tra gli uomini, attraverso le goccioline di umidità, un’umidità fonte di vita, vita per un essere che porta la morte. Osservare gli abitanti dell’Isola invisibile dopo l’arrivo del virus è un’occupazione che in molti hanno avuto il piacere di sperimentare. E’ quel genere di attività che ti occupa il tempo quando del tempo non sai bene che fartene, sicuro che, in un qualche modo, tu sia al di fuori di quel gioco che sta mettendo in campo una moltitudine di esseri viventi. Ma che tu sia fuori del gioco o dentro il gioco stesso, capirai che il virus ha la capacità di far emergere lati nascosti delle personalità di ognuno, ha il potere di rendere visibile l’invisibile, lui, proprio lui, un nemico che non si può vedere se non con potentissimi mezzi. E quell’invisibilità resasi manifesta mostra i fili che annodano le persone al potere, un potere che si fa pervasivo, muove braccia e gambe delle persone, le costringe all’immobilità, le fa cantare inni alla Nazione e mettere bandierine sui terrazzi. Gli abitanti dell’Isola invisibile paiono riallacciare tra di loro un sentimento di appartenenza, dimenticando poi come nei momenti di ricerca di approvvigionamento nei mercati il loro sguardo si incroci con odio per la paura del contagio; dimenticando come il sentimento di appartenenza emerga solo a comando, davanti ad un match sportivo o solamente quando si deve parlare male degli altri, di coloro che vivono al di là del mare e che, in fin dei conti, hanno sicuramente portato il virus tra di loro. Ma il virus non vede bandiere, non sa di essere arrivato nell’Isola invisibile, lui, che nemmeno si può vedere ad occhio nudo. Lui vive della vita degli altri. E la distrugge. E’un nemico implacabile ma non è il primo che gli abitanti dell’Isola hanno fronteggiato. Molti di loro ricordano di aver sentito parlare dell’arrivo di altri nemici, nel passato, visibili e invisibili, come questo. Ma la maggior parte di loro ha la memoria corta. Ha bisogno di toccare con mano i dati del presente, il passato è passato, che ce ne importa? Ma anche i colori che hai messo sul balcone hanno origine nel passato, potrai dir loro. Ma cosa dici, ti diranno, quelli sono nel sangue un sangue che però ha un solo colore, lo stesso per il virus. 

E poi ci sono ancora gli altri, quelli che se anche il virus ha fatto irruzione nelle loro vite si atteggiano, nei loro comportamenti, alla massima normalità. E pretendono che tu faccia lo stesso, che tu sia il più possibile uniforme al loro pensiero. Perchè in fondo, la maggior parte delle persone che abitano l’Isola invisibile non vuole altro che la normalità, una normalità che sia norma, legge. La loro, però. Ciò che appare diverso fa loro paura e va rigettato; ciò che è minoranza spaventa e ripugna e va cancellato. E difficilmente c’è stato, tra i governanti dell’Isola, qualcuno così avveduto capace di comprendere che il destino di un popolo si evidenzia nel suo essere capace di rendere preziosa ogni minoranza. 

E intanto il virus si fa strada tra la gente, come molti suoi simili hanno fatto in precedenza e ciclicamente faranno di nuovo. Quello che colpisce, ancora una volta, è la miopia degli abitanti dell’Isola invisibile, burattini teleguidati, per lo più, da altri burattini.

Gianluca Ginnetti

Che cosa sono le monadi di Leibniz?

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leibnizPrima o poi ogni studioso di filosofia, dal semplice appassionato allo studente del liceo, si deve confrontare con un concetto spesso visto come tra i più complicati di tutta la tradizione filosofica occidentale: l’idea di “monade”. Il filosofo tedesco non introduce, in verità, tale concetto, che trova la sua origine nella tradizione pitagorica, ma fornisce una sua interpretazione del tutto peculiare che risalta in tutta la filosofia moderna.

Ma che cosa sono le monadi? All’inizio dei “Principi razionali della Natura e della Grazia”, opera pubblicata poco prima della più nota “Monadologia”, Leibniz dice che:

“La sostanza è un Essere capace di azione, ed è semplice oppure composta: la sostanza semplice è senza parti; la sostanza composta è un assemblamento di sostanze semplici, cioè di monadi – monas è una parola greca, che significa l’unità o ciò che è uno. Le sostanze composte, cioè i corpi, sono delle molteplicità; mentre le sostanze semplici, cioè le vite, le anime e gli spiriti, sono delle unità” (p. 37)

Le monadi sono dunque “sostanze semplici” (ossia non divisibili, come Leibniz ricorda in seguito) che possono trovarsi in due diverse condizioni: da sole o unite tra loro. Quando le monadi si uniscono fra loro danno origine ad un corpo (sostanza composta); esso, a sua volta, è tale in virtù di una monade semplice che lo contraddistingue come creatura vivente. In altre parole, Leibniz sostiene che tutta la natura sia permeata da monadi e che in ogni creatura vivente vi sia una monade “speciale” che porta ogni creatura  a distinguersi dalle altre.  Tutta la natura è permeata dalla vita, idea che ricorda molto da vicino la filosofia di Giordano Bruno. Vi sono poi delle creature che godono della possibilità di poter essere più o meno consapevoli della propria esistenza (gli animali, dotati della monade “anima”); al livello più complesso di consapevolezza, poi, si collocano gli esseri umani, dotati di quella che Leibniz definisce “appercezione”, ossia la capacità di essere consapevoli della propria esistenza, possibilità resa concreta dalla monade “spirito”, che contraddistingue gli uomini.

A parte la forte eco tra la appercezione e il cogito cartesiano (e con il concetto di Ich denke kantiano), quella che salta agli occhi è una gerarchia di esseri naturali posti sulla Terra, gerarchia che, con le opportune differenze, si ricollega a matrici rinascimentali se non addirittura aristoteliche, come si può evincere dal semplice schema che segue:

monadi e aristotele

In un famoso passo della “Monadologia”, Leibniz sostiene che le monadi

non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire (p. 61)

Cosa può mai voler dire questa oscura immagine, e come si collega al tema della gerarchia di monadi? Innanzitutto Leibniz usa questa immagine per sostenere l’assoluta impossibilità della natura a rendere possibili due esseri identici, principio che il filosofo chiama “degli indiscernibili” e che trova le sue basi nella logica aristotelica (principio di identità, di non contraddizione e del terzo escluso). Siccome ogni essere è in nuce diverso da un altro essere, nulla può influenzare la sua esistenza e i cambiamenti che si generano nelle creature viventi è immesso nelle monadi direttamente da Dio all’atto della creazione.

E così, come una medesima città, se guardata da punti di vista differenti, appare sempre diversa ed è come molteplicata prospetticamente, allo stesso modo, per della moltitudine infinita delle sostanze semplici, ci sono come altrettanti universi differenti, i quali sono soltanto le prospettive di un unico universo secondo il differente punto di vista di ciascuna monade (p. 85).

I punti di vista non sono certo da intendersi come mero riferimento a qualsivoglia forma di relativismo; essi alludono, invece, ad una condizione naturale delle monadi scelta e decisa da Dio; non possiamo, pertanto, avere punti di vista “personali” ma solo agire in virtù delle scelte operate per noi da Dio. Il problema è molto ampio e porta in primo piano un disegno prestabilito da Dio nell’universo, quella che Leibniz definisce “armonia prestabilita delle monadi”. Dobbiamo immaginare un mondo retto da un rigido principio di ragion sufficiente che alla base di tutto ha Dio; l’universo è come un complesso orologio meccanico in cui ogni ingranaggio è messo “al suo posto” per rendere il tutto nella sua forma migliore possibile. Noi siamo quegli ingranaggi (così come tutte le cose che troviamo in natura); siccome Dio avrebbe potuto scegliere infiniti “mondi compossibili” (altre realtà dove gli avvenimenti avrebbero potuto andare diversamente dal come li conosciamo), il mondo portato “alla luce”, quello in cui viviamo, è quello più vicino alla stessa perfezione divina. Lo iato tra Dio e il nostro mondo, pertanto, è la presenza del male (metafisico) senza il quale non ci sarebbe stata differenza tra l’universo e Dio. Attraverso la sua giustizia divina (teodicea, termine coniato dal filosofo) Dio ha realizzato un mondo molto vicino alla perfezione; sempre secondo il principio degli indiscernibili, inoltre, Dio non avrebbe potuto replicare se stesso e quindi creare una “doppia perfezione”.

Mi rendo conto di aver lasciato molti problemi aperti, tornerò sull’argomento in un prossimo post, approfondendo altri problemi e trovando ulteriori connessioni con altre filosofie.

(I brani sono riportati dall’edizione Bompiani della Monadologia, a cura di Salvatore Cariati)

Hobbes e Kubrick: lo stato di natura

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1415182318_2001_a_space_odyssey_scimmiaIl titolo di questo articolo collega due nomi che difficilmente si possono trovare abbinati insieme…quale legame ci può mai essere tra un filosofo inglese del XVII secolo ed uno dei più grandi registi cinematografici del secolo scorso? La chiave di risposta è da ricercarsi, a mio avviso, nell’analisi del concetto di “stato di natura”, uno dei temi fondamentali presenti nel “Leviatano”, opera principale di Hobbes.

Nel “Leviatano” Hobbes descrive, come è noto, le cause che hanno portato gli uomini  a legarsi tra di loro per formare delle società. Per il filosofo inglese, a differenza della nota posizione di Aristotele, l’uomo non è un “animale sociale”, anzi, ma per sua stessa natura tende ad una forte “asocialità”. Nelle parole di Hobbes:

se due uomini desiderano una stessa cosa che d’altra parte non possono godere insieme essi diventano nemici; e per ottenere il loro scopo, che consiste principalmente nella propria conservazione, e molte volte la ricerca soltanto del proprio piacere, ognuno dei due tenta di sopprimere o di sottomettere l’altro. Per questo avviene che mentre un invasore non ha da temere altro che il solo potere di un altro uomo, se uno pianta, semina, costruisce, o possiede un’abitazione confortevole, è possibile che altri vengano organizzati con forze unite per spossessarlo e privarlo non soltanto del frutto del suo lavoro ma anche della vita, o della libertà

Tra i vari motivi che avrebbero portato gli uomini a scontrarsi fra di loro nello stato di natura, pertanto, Hobbes pone in primo piano la rivalità che scaturisce dalla volontà di due o più persone di appropriarsi della stessa risorsa. In un mondo dove gli uomini sono “lupi per gli altri uomini”, dove ogni conquista può essere messa in discussione da un altro uomo e la stessa vita è costantemente a rischio, avviene il necessario passaggio ad una società con delle regole, con delle leggi, uniche condizioni che, pur limitando la libertà dei singoli, possono garantire almeno il diritto alla vita. Non è questa la sede per descrivere le caratteristiche della forma di governo elaborata da Hobbes nel “Leviatano”, argomento che probabilmente riprenderò in un futuro post.

Ritornando al titolo del post, perché Kubrick? La risposta risiede nella prima parte della mia opera preferita del regista, “2001: Odissea nello spazio”. Le prime scene del film raccontano chiaramente, a mio avviso,  la condizione degli uomini nello stato di natura. Certo, non siamo davanti a veri e propri uomini ma ai loro antenati, i primati (tra Hobbes e Kubrick c’è stato un certo Darwin…)ma le condizioni di vita assomigliano alla situazione descritta da Hobbes. C’è una scena, fra tutte, che simboleggia la rivalità tra gruppi di primati, quella per il possesso di una pozza d’acqua, fonte primaria di vita. A mio avviso Kubrick è riuscito in modo magistrale a raccontare la comparsa dell’uomo sulla Terra, la paura nei confronti degli altri simili, il terrore causato dal tramonto del Sole e dalla comparsa del buio (senza la certezza del ritorno della luce).  Per chi ne avesse voglia, metto qui di seguito un link alla prima parte del film; nella parte selezionata fa la sua comparsa anche il famoso monolito nero, oggetto assolutamente misterioso che nasconde una profonda simbologia…anche in questo caso mi riserbo di affrontare i suoi significati nel prossimo futuro. A presto!

2001: A space odissey

Hegel e la dialettica “servo-signore”. Spunti di lettura

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Una delle pagine più famose della filosofia hegeliana è sicuramente quella che descrive il rapporto tra la figura del servo e quella del signore, spunto di partenza anche per molte riflessioni filosofiche successive.

padrone_che_batte_servoLe figure descritte da Hegel fanno la loro comparsa all’interno della “Fenomenologia dello Spirito” il cui titolo, originariamente, doveva essere la “Scienza dell’esperienza della coscienza”. Tutta l’opera, infatti, costituisce una sorta di “romanzo” che ha per protagonista la coscienza individuale e il suo cammino verso il Sapere Assoluto, un cammino dettato da precise tappe tra di loro connesse in modo necessario e organizzate secondo il famoso rapporto triadico, composto da una tesi, dalla sua antitesi e dalla sintesi che entrambe comprende.

Tutta la filosofia di Hegel pone l’accento sul necessario riconoscimento dell’alterità rispetto al sé e sul conseguente superamento della diversità nella sintesi. Anche sul piano strettamente umano, Hegel ci ricorda che:

“L’autocoscienza è in sé e per sé solo quando e in quanto è in sé e per sé per un’altra autocoscienza, cioè solo in quanto è qualcosa di riconosciuto” (p. 275). 

Gli esseri umani si riconoscono come autocoscienze solo nel momento in cui si pongono in relazione gli uni con gli altri; la specificità di ognuno è esplicitata solo nel rapporto con l’altro-da-sé, tuttavia questo reciproco “scambio” non avviene in modo immediato ma solo attraverso uno scontro tra le autocoscienze:

“Il rapporto tra le due autocoscienze, dunque, si determina come un dar prova di sé, a se stesso e all’altro, mediante la lotta per la vita e per la morte […] ed è soltanto rischiando la vita che si mette alla prova la libertà.” (p.281).

Come in una sorta di “stato di natura” di hobbesiana memoria, le due autocoscienze devono mettersi alla prova mettendo a repentaglio, pur di autoaffermarsi, la loro stessa esistenza. Solo l’autocoscienza capace di rischiare totalmente la vita potrà trovare un vero e proprio riconoscimento di sé e diventerà, nella terminologia hegeliana, un “signore”; l’autocoscienza incapace di rischiare, viceversa, non troverà un immediato riconoscimento di sé e diventerà subordinata al signore: nasce la figura del “servo”:

“Il signore si rapporta dunque mediatamente al servo attraverso l’essere autonomo […]; il servo si è rivelato non-autonomo proprio perché ha voluto avere la propria auotonomia nella cosalità. Il signore, invece, avendo dimostrato nella lotta di considerare l’essere autonomo soltanto come un negativo, è la potenza che domina su questo essere […], il signore si rapporta mediatamente alla cosa attraverso il servo […], il servo può solo trasformarla col proprio lavoro”. (pp. 283-285).

quarto-stato1Si va quindi a costituire un rapporto di sudditanza del servo rispetto alla figura del signore/padrone. Tuttavia, grazie ai tipici aspetti di rovesciamento dialettico della filosofia hegeliana, anche il servo riuscirà a trovare riconoscimento di sé proprio grazie al lavoro. E’ proprio l’attività manuale di “trasformazione della natura”, peculiare del lavoro servile, che porterà il servo a sperimentare la coscienza di sé e a sviluppare la prima forma di vera libertà, una libertà più forte di quella del signore, la cui esistenza dipende proprio dal lavoro del suo “sottoposto”:

“Il rapporto negativo verso l’oggetto diviene adesso forma dell’oggetto stesso, e diviene qualcosa di permanente, proprio perché l’oggetto ha autonomia agli occhi di chi lo elabora […]; con il lavoro, la coscienza esce fuori di sé per passare nell’elemento della permanenza […]; in effetti, formando la cosa, la coscienza vede divenire suo oggetto la propria negatività, il proprio essere-per-sé, solo perché essa rimuove la forma essente opposta” (p. 289)

“Nel lavoro, dunque, in cui essa sembrava essere solo un senso estraneo, la coscienza ritrova sé mediante se stessa e diviene senso proprio” (p. 291).

(I passi sono stati tratti dall’edizione Bompiani 2004, traduzione di Vincenzo Cicero).

“Noi”, la distopia di Zamjatin che anticipa Orwell.

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noi-volandGrazie ai suggerimenti che il mio ormai fedele “Kindle” mi propone puntualmente nella sua home page, mi sono recentemente imbattuto in una “nuova” distopia davvero molto interessante, pubblicata in inglese nel 1924  dallo scrittore russo Evugenij Ivanovic Zamjatin.

Ambientata in un non meglio precisato futuro, la storia descrive una società governata dal “Benefattore”, dove le persone si comportano tutte allo stesso modo all’interno di giornate scandite da un ferreo  e rigoroso orario da rispettare che regola le azioni di ciascuno. Uomini e donne, ormai senza nome ed identificati da sigle alfanumeriche, possono incontrarsi privatamente solo per due ore al giorno attraverso un sistema di prenotazioni con tagliandi rosa che permettono a ciascuno di accoppiarsi con la persona prenotata. La famiglia non esiste più, i figli appartengono allo stato, la libertà di pensiero e di comportamento è scomparsa. La città è inoltre cinta da un Muro oltre il quale  dovrebbe esistere solo il nulla, generato dalla disastrosa “Guerra dei duecento anni”.  Tuttavia, come si scopre ben presto, oltre al muro esistono dei sopravvissuti al conflitto che cercheranno, attraverso alcune persone a conoscenza del fatto, di rovesciare il governo del Benefattore e rivoluzionare la società.

Censurata nell’Unione Sovietica, dove venne pubblicata solo nel 1988, l’opera di Zamjatin è una chiara riflessione a toni scuri sui lati negativi interni alla Russia di inizio Novecento; i lati più deprecabili della società sovietica sono portati all’eccesso, gli uomini non godono ormai più del libero arbitrio, consegnandosi al Benefattore attraverso un’operazione in grado di eliminare dal cervello la zona deputata alla formazione della fantasia, vista come vera e principale nemica dell’ordine costituito; compito della “Grande Operazione” è infatti quello di “essere liberati dai punti di domanda che serpeggiano come vermiciattoli, rodono come tarli” in modo da massificare il più possibile tutti gli esseri umani.

Il compito del genere distopico, figlio novecentesco di quello utopico, è sicuramente quello di farci riflettere sui pericoli connessi al nostro modo di vivere. Opere come “Il mondo nuovo” di Huxley o “1984” di Orwell, senza dimenticare la recentissima “Caverna” di Saramago ci mettono in guardia, ci forniscono un monito. Purtroppo, a mio avviso, la maggior parte di questi ammonimenti non vengono presi assolutamente in considerazione dai politici che ci governano i quali, invece di far intraprendere alla società un corso diverso, sembrano spingere la stessa proprio verso i sogni distorti elaborati da questi grandi scrittori.

La UE deve dotarsi di un esercito?

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In questi giorni post brexit, il tema “Unione Europea” è stato portato alla ribalta su tutte le testate giornalistiche e il destino di questa istituzione è oggi messo quanto mai in discussione.  Oggi volevo fare il punto su una questione molto controversa relativa alla necessità, per l’Unione, di dotarsi di un esercito; andando a leggere il “Manifesto di Ventotene”, lo storico scritto elaborato da Altiero Spinelli e considerato oggi il documento fondativo dell’Unione, salta agli occhi il peso che il politico aveva dato alla costituzione di un “esercito europeo”:

per costituire un largo Stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli Stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli

A. Spinelli, Manifesto europeista redatto durante il confino di Ventotene

Salta agli occhi come uno dei principali principi dell’unione voluta da Spinelli sia proprio la costituzione di un esercito (permanente) formato da soldati provenienti da tutti gli Stati federali. Ci possiamo chiedere: a che pro? Personalmente sono sempre stato dell’idea che, progressivamente, gli eserciti dovrebbero scomparire o, al limite, essere utilizzati solo in missioni di pace e, come ultima ratio, in funzione difensiva. Purtroppo è lo stesso Spinelli a delineare le funzioni dell’esercito europeo:

per quanto non si possa dire pubblicamente, il fatto è che l’Europa per nascere ha bisogno di una forte tensione russo-americana, e non della distensione, così come per consolidarsi essa avrà bisogno  di una guerra contro l’Unione Sovietica, da saper fare al momento buono

in A. Spinelli, Diario Europeo (1948-1969), Il Mulino, 1989, p. 175

Link: L’Antidiplomatico

 

Un esercito, quindi, dai chiari propositi bellici! Ma può la guerra costituire un fondamento di un unione che dovrebbe avere come unico motivo d’essere la volontà di UNIRE i popoli sulla base di una forte e comune impronta morale e culturale?

Ci può essere d’aiuto, ancora una volta, il buon vecchio Kant (lo ammetto, ultimamente una delle mie letture preferite) con il suo terzo articolo preliminare per la Pace perpetua che recita:

«Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo interamente scomparire».

«Essi, infatti, dovendo sempre mostrarsi pronti a combattere, rappresentano per gli altri una continua minaccia di guerra; li invitano a superarsi reciprocamente nella quantità di armamenti, al quale non c’è limite.

Dato poi che il costo di una simile pace viene ad essere più opprimente di quello di una breve guerra, tali eserciti permanenti sono essi stessi causa di guerre aggressive intraprese per liberarsi di un tal peso.

Inoltre, il fatto di assoldare uomini per uccidere o essere uccisi, pare proprio che sia usarli come semplici macchine o strumenti in mano altrui (lo Stato), e ciò non si concilia per nulla con il diritto dell’umanità insito nella nostra propria persona (1).

Ben diverso è il caso degli esercizi militari periodici e volontari dei cittadini, per garantire se stessi e la patria contro aggressioni esterne»

Immanuel Kant, Per la pace perpetua

La domanda, quindi, è la seguente: la UE, posto che continui sempre ad esistere, dovrà in futuro dotarsi di un esercito permanente?

Internet: più conoscenza nelle persone?

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Più ci rifletto e più mi convinco…all’enorme mole di “sapere” che circola in rete corrisponde anche un maggiore aumento di  vera conoscenza nelle persone? La mia risposta è, ultimamente, negativa. Troppo spesso in discussioni di vario tipo, ogni interlocutore porta a riprova del proprio punto di vista una citazione, un articolo di qualche “esperto del settore” che puntualmente dovrebbe portare al prevalere di un certo punto di vista a discapito dell’altro. La cosa angosciante è che la rete ha fatto letteralmente proliferare gli “esperti” in ogni settore dello scibile…alcuni sono, ovviamente, veri esperti ma altri non lo sono assolutamente e credo che stia diventando sempre più difficile riuscire a selezionare le informazioni, soprattutto per le persone con scarsa educazione (ma non solo). Assistiamo così a pareri di premi Nobel su temi di economia o diritto politico decisamente antitetici (ma com’è possibile, uno si chiede…dovrebbero essere d’accordo su valori OGGETTIVI), a interpretazioni storiche di politici che selezionano i fatti nascondendo accuratamente quelli che non sono convenienti all’impostazione che vogliono portare avanti…..ma come fa un “non esperto” a muoversi in questo mare infinito di opinioni e di informazioni?!? Oppure, perché quando una posizione di un “esperto” non piace, tale impostazione viene vista subito legata ad un non meglio precisato oscuro legame all’establishment?

Certo, tale libertà di informazione può essere, giustamente, vista come una grande opportunità per lo sviluppo del pensiero critico…ma tale pensiero deve essere prima educato per poi poter essere esercitato. Io credo che l’uomo medio, oggi, non sia  più in grado di discernere, in molti casi,  il vero dal falso. Ultimamente mi è anche capitato di leggere commenti pieni di entusiasmo per la diffusione nelle edicole del “Mein Kampf“di Hitler, per finire poi a trovare ulteriori commenti che magnificano le opinioni del Führer auspicandone la ripresa. Per questa tanto sbandierata “libertà di informazione/pensiero” si è arrivati a diffondere nelle case un’opera intrisa di ignoranza, populismo, demagogia e odio quando, fino a poco tempo fa, ad essere allegate ai giornali erano enciclopedie, classici della letteratura e della filosofia, opere da avere come bagaglio rappresentativo dei lati migliori dell’umanità, non di quelli peggiori.

Come risolvere i problemi qui appena accennati? Permettendo, ovviamente, una sempre maggiore diffusione del sapere attraverso le scuole. Bisogna riprendere decisamente in mano i programmi scolastici e approfondire davvero le discipline umanistiche. Solo aumentando le ore di Storia e materie affini sarà possibile allenare le menti alla scelta…una scelta consapevole basata sulla conoscenza dei fatti, nudi e crudi, spiegati poi con l’ausilio della filosofia. In fondo era questa la visione di un filosofo oggi un po’ dimenticato, Giambattista Vico con la sua Scienza Nuova, una perfetta fusione tra la Filologia (scienza del certo) e la Filosofia (scienza del vero).

La Filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la Filologia osserva l’autorità dell’umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo. (Giambattista Vico, Scienza Nuova, Sez. II, X).

Rifacciamoci ai grandi classici, apriamo più libri e meno web!!!

Kant, riflessioni da “Per la pace perpetua”

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Immanuel_Kant_(painted_portrait)Ogni singola pagina della “Zu ewigen Friede” di Kant meriterebbe una profonda riflessione, tanta è la profondità concettuale che il filosofo di Königsberg riesce ad infondere ad ogni sua frase. Copio qui, per chi avrà il piacere di leggerli, alcuni estratti che secondo me meritano di essere condivisi, soprattutto di questi tempi segnati da intolleranza e sostanziale menefreghismo del ruolo che gli uomini dovrebbero avere nel mondo. I passi sono tratti dall’edizione Feltrinelli 2003, traduzione di R.Bordiga.

Sulla libertà:

“La libertà giuridica […] non può venire definita, come pure si fa di solito, come la facoltà di “fare tutto quello che si vuole, a patto che non si faccia torto a qualcuno” […] Non si fa torto a nessuno (si faccia pure ciò che si vuole) quando non si fa torto a nessuno. Si tratta così di una vuota tautologia. La mia libertà esterna deve essere definita piuttosto in questo modo: essa è la facoltà di obbedire a nessun altra legge esterna se non a quelle leggi a cui ho potuto dare il mio consenso”. (pp.  54-55).

Sulle feste di ringraziamento dopo una guerra:

“Le feste di ringraziamento che si fanno nel corso di una guerra per una vittoria in battaglia, gli inni che vengono cantati (nella buona tradizione israelita) al Signore degli Eserciti, formano con il Padre degli uomini un contrasto non meno profondo , poiché oltre all’indifferenza (già deplorabile) rispetto al modo in cui i popoli cercano il loro reciproco diritto, aggiungono la gioia di aver distrutto la vita o la felicità di tanti uomini” (p. 64).

Sul diritto di accoglienza e di visita:

“Qui, come negli articoli precedenti, non è in discussione la filantropia, ma il diritto, e allora ospitalità significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro. Questi può mandarlo via , se ciò non mette a repentaglio la sua vita, ma fino a quando sta pacificamente al suo posto non si deve agire verso di lui in senso ostile. Non è un diritto di accoglienza a cui lo straniero possa appellarsi […] ma un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini, il diritto di offrire la loro società in virtù del diritto della proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno a fianco dell’altro” (p. 65).

Sulla diversità delle religioni:

“La diversità delle religioni: che strana espressione! Come se si parlasse anche di diverse morali. Ci possono ben essere diverse forme di fede storiche non nella religione, ma nella storia dei mezzi usati per il suo avanzamento e che rientrano nel campo dell’erudizione, e così diversi libri di religione (lo Zendavesta, i Veda, il Corano ecc.) ma ci può essere soltanto un’unica religione valida per tutti gli uomini e per tutti i tempi. Quelle credenze non possono essere altro che il veicolo della religione, che è appunto casuale e può essere differente a seconda dei luoghi e dei tempi” (pp. 77-78).

Sulla federazione di pace (foedus pacificum)

“La ragione, dall’alto del trono del supremo potere che dà le leggi morali, condanna assolutamente la guerra come procedimento giuridico e fa invece dello stato di pace un dovere immediato, che però senza un patto reciproco tra gli Stati non può essere fondato o garantito: così deve necessariamente esserci una federazione di tipo particolare, che si può chiamare federazione di pace […]. Non è cosa impossibile immaginarci la realizzabilità (la realtà oggettiva) di questa idea di federazione, che si deve estendere progressivamente a tutti gli Stati e che conduce così alla pace perpetua” (pp.62-63).

Riflessione sulla felicità…

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EpicuroIl mondo contemporaneo mi appare troppo spesso slegato dalla risoluzione di quelli che dovrebbero essere, a mio avviso, i veri problemi dell’esistenza umana. Manca la riflessione sulla domanda forse centrale nella vita di ognuno: che cosa è la felicità? Che cosa mi rende felice? Il senso della vita umana, forse, va ricondotto proprio a questa domanda e al tentativo di darvi una risposta  universalmente valida.

Il testo della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, frutto di una ideologia tutta europea imperniata sui cardini dell’Illuminismo, rivendicava il “diritto alla ricerca della Felicità” come diritto inalienabile dell’uomo, assieme al “diritto alla Vita” e al “diritto alla Libertà”. E già in questa formulazione si può vedere come la felicità debba essere ricercata, scovata…essa può apparire nascosta, presentarsi sotto mentite spoglie ma va, per l’appunto, ricercata.

Se l’esistenza del singolo non passa attraverso questa fase di ricerca, tale esistenza è destinata ad una perpetua insoddisfazione e, soprattutto, da una forte mancanza di senso. La ricerca della felicità presuppone anche la ricerca di una meta, il tentativo di raggiungere un obiettivo. E se tali mete e obiettivi dovessero manifestarsi, infine, come lontani dalle nostre aspirazioni il cammino dovrà ricominciare e durare, forse, per tutta la vita.

Detto questo, che cosa ci rende felici? Non ho ancora una risposta definitiva e spesso mi pongo il problema…ma quando rifletto mi tornano sempre in mente le parole di Epicuro e le sue meravigliose riflessioni contenute nella “Lettera a Meneceo“.

Chiudo il post proprio lasciando aperta la riflessione personale sulla scorta di alcuni passi di Epicuro:

“Occorre dunque riflettere su cosa produce la felicità, se davvero, quando è presente, abbiamo tutto, mentre quando è assente facciamo di tutto per ottenerla” (122)

“Il saggio è colui che né ricerca il vivere né teme il non vivere, poiché né gli è avverso il vivere né reputa un male il non vivere” (126)

“Si deve pensare che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e di quelli naturali alcuni necessari, altri soltanto naturali; e di quelli necessari alcuni lo sono per la felicità, altri per il benessere del fisico, altri per la vita stessa. Infatti una sicura conoscenza di questi sa ricondurre ogni scelta e rifiuto alla salute del corpo e alla tranquillità dell’anima” (127-128)

“Quando dunque diciamo che il piacere è il fine ultimo, non ci riferiamo ai piaceri dei dissoluti o a  quelli che si trovano nelle crapule, come ritengono alcuni che invero ignorano il nostro pensiero o non lo condividono o lo male interpretano, ma il non soffrire fisicamente e il non essere turbati spiritualmente” (131)

 

 

 

La tripartizione dell’anima nel pensiero di Platone

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210px-Platon-2Uno dei temi più difficili e affascinanti del pensiero di Platone è senza ombra di dubbio quello legato alla descrizione dell’anima e delle sue caratteristiche. Il filosofo di Atene parla a più riprese di questo tema in molti dei suoi dialoghi, soprattutto nel “Fedro”, nella “Repubblica” e nel “Timeo”; l’anima è il principio vitale  ed eterno che esiste in ogni creatura e come tale è soggetta, riprendendo un tema molto caro già ai pitagorici, alla metempsicosi, la “trasmigrazione” da un corpo ad un altro corpo. Accanto a questa visione, Platone ne propone un’altra per specificare, a mio avviso, la complessità dell’anima umana, che viene addirittura “scomposta” in tre parti: un’anima razionale, una irascibile ed una concupiscibile. Ovviamente Platone non voleva sostenere la presenza, all’interno degli uomini, di tre diverse anime, ma sottolineare quelle che oggi definiremmo forze psichiche tra di loro in rapporto.

Analizzando alcuni dei principali miti che Platone aveva scritto a riguardo ho provato a rappresentare, in uno schema, alcuni  possibili rimandi che ogni tripartizione dell’anima può portare:

L'ANIMA PER PLATONE

 

Cercando di affrontare, in modo semplice, lo schema proposto, si può subito notare come le tre diverse “funzioni” dell’anima vengano collocate in precisi organi  del nostro corpo: l’anima razionale avrebbe sede nel cervello, quella irascibile nel cuore  e quella concupiscibile, infine, nelle parti più basse del corpo. E’ bene da subito precisare che in ogni uomo albergano queste tre diverse anime le quali dovrebbero presiedere a funzioni specifichee ed uniche:

  1. anima razionale: intelletto, pensiero razionale
  2. anima irascibile: coraggio, impulsività
  3. anima concupiscibile: appetiti “culinari” (stomaco,intestino) e sessuali (organi di riproduzione)

Platone precisa inoltre che la parte più “forte” tra le tre sarebbe quella concupiscibile, paragonata ad un “mostro dalle tante teste”, chiaro riferimento alla forza che i desideri materiali, spesso inconsci e molteplici, possono esercitare sulle restanti parti dell’anima.  La sezione mediana dell’anima, quella irascibile, viene legata al leone, animale che più di tutti riecheggia potenza; l’anima irascibile è molto importante ma deve essere posta, secondo l’Ateniese, al servizio di quella razionale; se infatti venisse controllata dalla parte concupiscibile, la parte razionale non sarebbe più in grado di “governare” il corpo, portando ad un’esistenza caratterizzata da forti squilibri. Infine, l’anima razionale viene proprio legata alla figura specifica dell’uomo; l’essere umano, infatti, si distinguerebbe da tutte le altre creature per la sua razionalità, tematica che sarà ripresa poi in modo molto bello da Aristotele e che caratterizzerà un po’ tutto il pensiero metafisico occidentale.

I rapporti tra le diverse parti dell’anima sono esemplificati al meglio dal mito dell’auriga e del carro alato, presente nel Fedro; l’auriga6 biga (anima razionale), che vuole guidare  il carro in alto,  verso il mondo delle Idee (verso la conoscenza), deve saper guidare bene i due
cavalli, quello bianco (anima irascibile) e quello nero (anima concupiscibile) che, senza una guida, andrebbero verso il basso. Va da sé che la forza dei cavalli sia più forte di quella dell’auriga, ma questi, se ben educato e buon conoscitore dei due cavalli, può portare ad un corretto andamento del carro (del corpo umano).

E’ sorprendente la grandissima modernità di tale impostazione di pensiero. Ai tempi di Platone non esisteva la ricerca psicologica intesa in senso moderno, come disciplina separata dalla filosofia. Platone era già giunto, senza nessuna pretesa di scientificità, a molte delle idee di Freud riguardo l’esistenza dell’inconscio e così via (Es, Io, Super-io…)Ma, del resto, la psicologia (“studio dell’anima”, nella sua non casuale etimologia) nasce in seno alla filosofia e solo dal XIX secolo se ne è distaccata….

Per finire questo veloce excursus sulle idee di Platone sull’anima, ci si deve focalizzare sulla parte più pratica di questa impostazione, quella che individua la tripartizione dell’anima anche in funzione di una tripartizione sociale, in quella che dovrebbe costituire, nel progetto descritto nella “Repubblica”, la “kallipolis”, la città giusta. In tale città-stato ideale, ogni uomo dovrebbe poter svolgere il lavoro più idoneo alla propria indole, un’indole portabile alla luce solo da un forte sistema educativo gestito dallo Stato. Secondo l’idea di Platone ognuno di noi avrebbe una maggiore presenza di una delle tre caratteristiche dell’anima e, in base a tale “prevalenza”, appartenere ad una determinata classe sociale:

  1. + anima razionale: politici, ossia filosofi: possiedono la saggezza, se ben educati
  2. + anima irascibile: guerrieri: possiedono il coraggio, se ben educati
  3. + anima concupiscibile: artigiani, produttori: possiedono la temperanza, se ben educati  

Non è questa la sede per sviscerare tale impostazione; qui basta ricordare come tale prevalenza di una delle tre “anime” fosse stata spiegata da Platone attraverso il “mito degli uomini plasmati dalla terra” dove il Demiurgo (un dio artigiano), plasmando gli uomini con la terra a sua disposizione, avrebbe messo in alcuni individui più oro, in alcuni più argento e, in altri, più rame. Un mito, secondo me, molto molto suggestivo.

Per concludere, cosa possiamo imparare da tutto questo discorso? Innanzitutto possiamo apprezzare l’enorme complessità del pensiero di Platone e la sua straordinaria forza e modernità; “parlare” con una mente così attraverso le barriere del tempo e dello spazio è uno dei privilegi di chi vuole coltivare la passione per la filosofia. Inoltre dobbiamo ricordare che il modo migliore per poter guidare la nostra esistenza in questo mondo è quella di conoscere bene noi stessi, le nostre pulsioni, i nostri desideri, sempre cercando di trovare un equilibrio tra le forze che spesso ci dominano, anche inconsciamente. Ma non dobbiamo mai scordare che, in primis, siamo esseri umani e che dobbiamo dare maggiore spazio, se vorremo essere “giusti”, all’auriga che è in tutti noi.