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Che cosa sono le monadi di Leibniz?
Prima o poi ogni studioso di filosofia, dal semplice appassionato allo studente del liceo, si deve confrontare con un concetto spesso visto come tra i più complicati di tutta la tradizione filosofica occidentale: l’idea di “monade”. Il filosofo tedesco non introduce, in verità, tale concetto, che trova la sua origine nella tradizione pitagorica, ma fornisce una sua interpretazione del tutto peculiare che risalta in tutta la filosofia moderna.
Ma che cosa sono le monadi? All’inizio dei “Principi razionali della Natura e della Grazia”, opera pubblicata poco prima della più nota “Monadologia”, Leibniz dice che:
“La sostanza è un Essere capace di azione, ed è semplice oppure composta: la sostanza semplice è senza parti; la sostanza composta è un assemblamento di sostanze semplici, cioè di monadi – monas è una parola greca, che significa l’unità o ciò che è uno. Le sostanze composte, cioè i corpi, sono delle molteplicità; mentre le sostanze semplici, cioè le vite, le anime e gli spiriti, sono delle unità” (p. 37)
Le monadi sono dunque “sostanze semplici” (ossia non divisibili, come Leibniz ricorda in seguito) che possono trovarsi in due diverse condizioni: da sole o unite tra loro. Quando le monadi si uniscono fra loro danno origine ad un corpo (sostanza composta); esso, a sua volta, è tale in virtù di una monade semplice che lo contraddistingue come creatura vivente. In altre parole, Leibniz sostiene che tutta la natura sia permeata da monadi e che in ogni creatura vivente vi sia una monade “speciale” che porta ogni creatura a distinguersi dalle altre. Tutta la natura è permeata dalla vita, idea che ricorda molto da vicino la filosofia di Giordano Bruno. Vi sono poi delle creature che godono della possibilità di poter essere più o meno consapevoli della propria esistenza (gli animali, dotati della monade “anima”); al livello più complesso di consapevolezza, poi, si collocano gli esseri umani, dotati di quella che Leibniz definisce “appercezione”, ossia la capacità di essere consapevoli della propria esistenza, possibilità resa concreta dalla monade “spirito”, che contraddistingue gli uomini.
A parte la forte eco tra la appercezione e il cogito cartesiano (e con il concetto di Ich denke kantiano), quella che salta agli occhi è una gerarchia di esseri naturali posti sulla Terra, gerarchia che, con le opportune differenze, si ricollega a matrici rinascimentali se non addirittura aristoteliche, come si può evincere dal semplice schema che segue:
In un famoso passo della “Monadologia”, Leibniz sostiene che le monadi
non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire (p. 61)
Cosa può mai voler dire questa oscura immagine, e come si collega al tema della gerarchia di monadi? Innanzitutto Leibniz usa questa immagine per sostenere l’assoluta impossibilità della natura a rendere possibili due esseri identici, principio che il filosofo chiama “degli indiscernibili” e che trova le sue basi nella logica aristotelica (principio di identità, di non contraddizione e del terzo escluso). Siccome ogni essere è in nuce diverso da un altro essere, nulla può influenzare la sua esistenza e i cambiamenti che si generano nelle creature viventi è immesso nelle monadi direttamente da Dio all’atto della creazione.
E così, come una medesima città, se guardata da punti di vista differenti, appare sempre diversa ed è come molteplicata prospetticamente, allo stesso modo, per della moltitudine infinita delle sostanze semplici, ci sono come altrettanti universi differenti, i quali sono soltanto le prospettive di un unico universo secondo il differente punto di vista di ciascuna monade (p. 85).
I punti di vista non sono certo da intendersi come mero riferimento a qualsivoglia forma di relativismo; essi alludono, invece, ad una condizione naturale delle monadi scelta e decisa da Dio; non possiamo, pertanto, avere punti di vista “personali” ma solo agire in virtù delle scelte operate per noi da Dio. Il problema è molto ampio e porta in primo piano un disegno prestabilito da Dio nell’universo, quella che Leibniz definisce “armonia prestabilita delle monadi”. Dobbiamo immaginare un mondo retto da un rigido principio di ragion sufficiente che alla base di tutto ha Dio; l’universo è come un complesso orologio meccanico in cui ogni ingranaggio è messo “al suo posto” per rendere il tutto nella sua forma migliore possibile. Noi siamo quegli ingranaggi (così come tutte le cose che troviamo in natura); siccome Dio avrebbe potuto scegliere infiniti “mondi compossibili” (altre realtà dove gli avvenimenti avrebbero potuto andare diversamente dal come li conosciamo), il mondo portato “alla luce”, quello in cui viviamo, è quello più vicino alla stessa perfezione divina. Lo iato tra Dio e il nostro mondo, pertanto, è la presenza del male (metafisico) senza il quale non ci sarebbe stata differenza tra l’universo e Dio. Attraverso la sua giustizia divina (teodicea, termine coniato dal filosofo) Dio ha realizzato un mondo molto vicino alla perfezione; sempre secondo il principio degli indiscernibili, inoltre, Dio non avrebbe potuto replicare se stesso e quindi creare una “doppia perfezione”.
Mi rendo conto di aver lasciato molti problemi aperti, tornerò sull’argomento in un prossimo post, approfondendo altri problemi e trovando ulteriori connessioni con altre filosofie.
(I brani sono riportati dall’edizione Bompiani della Monadologia, a cura di Salvatore Cariati)
Genova, tesori nascosti #6: la chiesa dei Santi Cosma e Damiano
La chiesa dei Santi Cosma e Damiano si trova nel cuore più antico del centro storico di Genova e costituisce senza ombra di dubbio uno degli esempi più significativi di romanico genovese. Ricordo ancora quando ero uno studente e accompagnavo i turisti in visita all’acquario proprio in questa zona della città vecchia, attraverso il cosiddetto “itinerario verde”. Dagli anni ’90 ad oggi la zona è molto cambiata (in meglio, grazie a Dio) e la chiesa ha ottenuto un profondo restyling che ha potuto riportare gran parte del manufatto alle sue origini più autentiche.
Leggendo il Tolozzi si apprende che la prima notizia della chiesa risale ad un documento del 21 aprile 1049 sul sito di un precedente edificio (forse un oratorio) dedicato ai Santi Damiano e Celso, due medici martirizzati nel III secolo in Cilicia.
La particolare dedica dell’edificio di culto ha portato nel tempo i membri dell’arte dei medici a porre il proprio sepolcro nella navata principale.
Nella facciata, oltre la famosa tomba del Barisone, si possono ancora ammirare degli esempi di bassorilievi raffiguranti alcuni mostri tratti dai bestiari medievali e che costituivano la cifra stilistica dell’arte romanica.
L’edificio spicca per la sua sobria semplicità, dominato dalla forte presenza della pietra nera di promontorio, vero marchio di fabbrica dell’architettura medievale genovese. Le pareti delle navate si presentano oggi per lo più in nuda pietra o mattoni a vista ma probabilmente erano un tempo affrescate (mi piange sempre il cuore a pensare a tutti gli affreschi che sono scomparsi nel corso dei secoli…non potremo vederli mai più…).
Di notevole interesse sono sicuramente le reliquie di San Damiano recate a Genova verso la fine del XIII secolo e provenienti da Costantinopoli (città vero e proprio scrigno di importanti reliquie).
Per finire questa breve analisi della chiesa voglio ineserire l’immagine di un probabile sarcofago romano utilizzato proprio come materiale di riuso ai tempi dell’edificazione della chiesa, ricordando che tutta la città vecchia è davvero piena di elementi di questo genere…basta avere gli occhi per guardare. Alla prossima!
Hobbes e Kubrick: lo stato di natura
Il titolo di questo articolo collega due nomi che difficilmente si possono trovare abbinati insieme…quale legame ci può mai essere tra un filosofo inglese del XVII secolo ed uno dei più grandi registi cinematografici del secolo scorso? La chiave di risposta è da ricercarsi, a mio avviso, nell’analisi del concetto di “stato di natura”, uno dei temi fondamentali presenti nel “Leviatano”, opera principale di Hobbes.
Nel “Leviatano” Hobbes descrive, come è noto, le cause che hanno portato gli uomini a legarsi tra di loro per formare delle società. Per il filosofo inglese, a differenza della nota posizione di Aristotele, l’uomo non è un “animale sociale”, anzi, ma per sua stessa natura tende ad una forte “asocialità”. Nelle parole di Hobbes:
se due uomini desiderano una stessa cosa che d’altra parte non possono godere insieme essi diventano nemici; e per ottenere il loro scopo, che consiste principalmente nella propria conservazione, e molte volte la ricerca soltanto del proprio piacere, ognuno dei due tenta di sopprimere o di sottomettere l’altro. Per questo avviene che mentre un invasore non ha da temere altro che il solo potere di un altro uomo, se uno pianta, semina, costruisce, o possiede un’abitazione confortevole, è possibile che altri vengano organizzati con forze unite per spossessarlo e privarlo non soltanto del frutto del suo lavoro ma anche della vita, o della libertà
Tra i vari motivi che avrebbero portato gli uomini a scontrarsi fra di loro nello stato di natura, pertanto, Hobbes pone in primo piano la rivalità che scaturisce dalla volontà di due o più persone di appropriarsi della stessa risorsa. In un mondo dove gli uomini sono “lupi per gli altri uomini”, dove ogni conquista può essere messa in discussione da un altro uomo e la stessa vita è costantemente a rischio, avviene il necessario passaggio ad una società con delle regole, con delle leggi, uniche condizioni che, pur limitando la libertà dei singoli, possono garantire almeno il diritto alla vita. Non è questa la sede per descrivere le caratteristiche della forma di governo elaborata da Hobbes nel “Leviatano”, argomento che probabilmente riprenderò in un futuro post.
Ritornando al titolo del post, perché Kubrick? La risposta risiede nella prima parte della mia opera preferita del regista, “2001: Odissea nello spazio”. Le prime scene del film raccontano chiaramente, a mio avviso, la condizione degli uomini nello stato di natura. Certo, non siamo davanti a veri e propri uomini ma ai loro antenati, i primati (tra Hobbes e Kubrick c’è stato un certo Darwin…)ma le condizioni di vita assomigliano alla situazione descritta da Hobbes. C’è una scena, fra tutte, che simboleggia la rivalità tra gruppi di primati, quella per il possesso di una pozza d’acqua, fonte primaria di vita. A mio avviso Kubrick è riuscito in modo magistrale a raccontare la comparsa dell’uomo sulla Terra, la paura nei confronti degli altri simili, il terrore causato dal tramonto del Sole e dalla comparsa del buio (senza la certezza del ritorno della luce). Per chi ne avesse voglia, metto qui di seguito un link alla prima parte del film; nella parte selezionata fa la sua comparsa anche il famoso monolito nero, oggetto assolutamente misterioso che nasconde una profonda simbologia…anche in questo caso mi riserbo di affrontare i suoi significati nel prossimo futuro. A presto!
“Noi”, la distopia di Zamjatin che anticipa Orwell.
Grazie ai suggerimenti che il mio ormai fedele “Kindle” mi propone puntualmente nella sua home page, mi sono recentemente imbattuto in una “nuova” distopia davvero molto interessante, pubblicata in inglese nel 1924 dallo scrittore russo Evugenij Ivanovic Zamjatin.
Ambientata in un non meglio precisato futuro, la storia descrive una società governata dal “Benefattore”, dove le persone si comportano tutte allo stesso modo all’interno di giornate scandite da un ferreo e rigoroso orario da rispettare che regola le azioni di ciascuno. Uomini e donne, ormai senza nome ed identificati da sigle alfanumeriche, possono incontrarsi privatamente solo per due ore al giorno attraverso un sistema di prenotazioni con tagliandi rosa che permettono a ciascuno di accoppiarsi con la persona prenotata. La famiglia non esiste più, i figli appartengono allo stato, la libertà di pensiero e di comportamento è scomparsa. La città è inoltre cinta da un Muro oltre il quale dovrebbe esistere solo il nulla, generato dalla disastrosa “Guerra dei duecento anni”. Tuttavia, come si scopre ben presto, oltre al muro esistono dei sopravvissuti al conflitto che cercheranno, attraverso alcune persone a conoscenza del fatto, di rovesciare il governo del Benefattore e rivoluzionare la società.
Censurata nell’Unione Sovietica, dove venne pubblicata solo nel 1988, l’opera di Zamjatin è una chiara riflessione a toni scuri sui lati negativi interni alla Russia di inizio Novecento; i lati più deprecabili della società sovietica sono portati all’eccesso, gli uomini non godono ormai più del libero arbitrio, consegnandosi al Benefattore attraverso un’operazione in grado di eliminare dal cervello la zona deputata alla formazione della fantasia, vista come vera e principale nemica dell’ordine costituito; compito della “Grande Operazione” è infatti quello di “essere liberati dai punti di domanda che serpeggiano come vermiciattoli, rodono come tarli” in modo da massificare il più possibile tutti gli esseri umani.
Il compito del genere distopico, figlio novecentesco di quello utopico, è sicuramente quello di farci riflettere sui pericoli connessi al nostro modo di vivere. Opere come “Il mondo nuovo” di Huxley o “1984” di Orwell, senza dimenticare la recentissima “Caverna” di Saramago ci mettono in guardia, ci forniscono un monito. Purtroppo, a mio avviso, la maggior parte di questi ammonimenti non vengono presi assolutamente in considerazione dai politici che ci governano i quali, invece di far intraprendere alla società un corso diverso, sembrano spingere la stessa proprio verso i sogni distorti elaborati da questi grandi scrittori.